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In Grand Tour. Una viaggiatrice inquieta

di Giovanni Battista Todeschi

Non è facile dire cosa siano il talento e la passione per l’arte, e nemmeno è facile dire da dove essi traggano origine. E’ certo però che il talento e la passione sono spesso fratelli di sangue uniti in un solo destino, e una volta che l’esperienza li abbia educati, affinati e consolidati, le opere li concretizzano ponendosi come pietre miliari e come segnavia lungo il cammino di un’intera vita. E’ un itinerario più o meno lungo, più o meno difficile, e come tutti gli itinerari esso ha i suoi punti di sosta: lì l’artista viaggiatore si ferma (ma a volte rallenta soltanto), apre il suo diario e annota, rammemorando. E’ questo il Grand Tour: un viaggio di formazione le cui tappe segnano ad un tempo dei punti d’arrivo e di partenza, degli snodi situati lungo un percorso spirituale non concluso e forse destinato a non concludersi, un viaggio affascinante nei luoghi immateriali della geografia dell’anima e allo stesso tempo un suo puntuale resoconto visivo, vero Bildungsroman scritto con le immagini. Di questo romanzo di formazione le opere qui esposte rappresentano il capitolo più recente ma certo non finale, e con esso l’artista stende un primo consuntivo della propria attività durante l’ultimo triennio. In ciò nulla dell’arido regesto, nulla del catalogo museale, ma solo la viva e coinvolgente testimonianza di un travaglio e di un’inquietudine, di una tensione espressiva che sembra sostanziarsi dell’archetipo della metamorfosi, dell’inesausto trasmutarsi delle forme e però anche dell’emergere sempre più deciso di quelle, tra esse, più immediatamente e facilmente riconoscibili. Un esitante ma progressivo passaggio dall’astratto al figurativo? Un sofferto ma graduale approdo a lidi più noti e rassicuranti? Forse anche un atto di rinuncia e di acquiescenza? Si direbbe piuttosto una pausa di raccoglimento e di meditazione, un momento di sosta e di riposo nel mondo conosciuto prima del nuovo inoltrarsi lungo vie incognite e perigliose.
Annamaria Targher è donna ed artista che non teme le sfide, e le affronta a viso aperto gettandosi nell’atto creativo senza cercare quei facili appigli che la profonda cultura e lo scaltrito possesso di tecniche e materiali pur le offrirebbero: nessuna scorciatoia per lei , nessun omaggio alle mode imperanti, anche perché Annamaria sa, come sapeva Leopardi, che la moda è sorella della morte, ed entrambe sono figlie della caducità.
Di lei è stato detto che appartiene a quella generazione di giovani artisti che non temono di sporcarsi le mani con il colore, e veramente Annamaria nell’atto creativo mette in gioco tutta se stessa, intrecciando con i materiali del proprio operare un rapporto che è fisico ancor prima che mentale, un rapporto al calor bianco dove i momenti di dolce abbandono si alternano a quelli di furia aggressiva, e la tela da neutro supporto si trasforma in un corpo da accarezzare e insieme da ferire, quasi essa rappresentasse ad un tempo un necessario sostegno e una barriera da infrangere, un protettivo ricovero ma anche un limite opprimente.
Sarà casuale che la nostra artista privilegi le grandi superfici? Ci vogliono ampie finestre per permettere a degli universi paralleli l’ingresso nel nostro mondo,e questi universi originano nei recessi più profondi della psiche e si manifestano alla coscienza dell’artista nel dormiveglia, quando il sogno e la realtà ancora si confondono in un lucore nebuloso e indistinto e le immagini appaiono e scompaiono in un magma ribollente di colori. L’atto creativo diviene allora una continua ricerca e un continuo tentativo di recupero di queste visive tracce mnestiche, riprodotte e ampliate poi in una dimensione che è sì progettualmente definita in termini razionali, ma che allo stesso tempo riporta l’immagine alla sua originaria natura di percezione borderline, a quella fantasmatica terra di nessuno che è posta tra il mondo del sogno e quello della veglia. Lì tutto si crea e tutto si distrugge, il caos diviene cosmo e il cosmo nuovamente si fa caos, tra vortici cromatici che ora si addensano e si accendono, ora si dilatano e si attenuano, mentre l’oggetto tematizzato, perlopiù presentato per cenni allusivi, guizzanti e fugaci, subito si trasfigura portandosi là dove la pura percezione si afferma, come voleva Merleau - Ponty (il cui pensiero Annamaria ben conosce), quale prius ontologico che precede ogni attribuzione di significato. Occorrono perizia e coraggio per operare produttivamente in tale officina alchemica, per trovare un ordine che riesca ad impedire la dispersione e la frantumazione (forse anche la follia) senza perciò divenire una prigione, e fra le opere esposte Landscape. Oppression ed Esercizio I sembrano quasi voler tematizzare questa perpetua tensione, questo delicatissimo equilibrio che abbisogna di essere continuamente ristabilito. Ha qui ancora un senso la distinzione tra astratto e figurativo? O il ricorso agli ismi di prammatica (surrealismo, espressionismo astratto e via dicendo…)? Queste comode etichette, certo utili per orientarsi nella cultura di un’epoca ma solitamente dannose quando ci si trovi a tu per tu con la personalità e con l’opera del singolo artista, sono state definite non a torto dei “pleonasmi retorici”… Certo è che Annamaria non ha mai compiuto il gran balzo verso l’astrazione pura, e forse proprio per questo non ha trovato come Kandinskij quell’irenico iperuranio nel quale aver scampo dalle ansie del mondo, ché il voluto porsi su una sottile e incerta linea di confine ha invece suscitato in lei nuove e sempre più profonde inquietudini. E’ forse proprio per placarle che l’artista da qualche tempo si dedica a dei lavori di nuovo genere? Si tratta di sperimentazioni polimateriche condotte su superfici meno estese,e in esse trovano ampio spazio la tecnica del collage e l’utilizzo dei tessuti. Ma se in Fogli di papiro l’utilizzo di brandelli di pagine di giornale è funzionale al recupero di una materialità puramente autoreferenziale, ove il frammento cartaceo perde la funzione di supporto di un testo scritto e trascina anche quest’ultimo a divenire mero elemento pittorico simboleggiante il ritorno all’origine (la pianta del papiro), qui ci troviamo invece di fronte a qualcosa di diverso, non fosse altro perché in queste opere si afferma, in modo sempre più deciso e sempre più riconoscibile, la figura umana (anche se zoomorficamente travestita secondo i dettami di un personalissimo bestiario fantastico, così come in Ragazzo che si volta mentre mangia I, in Ragazzo che si volta mentre mangia II e in Ragazzo che aspetta il volo II). Ma basta la sola immediata riconoscibilità di forme note per acquietare? E, soprattutto, basta essa quando queste forme sono conturbanti? Conturbanti anche fino all’angoscia dell’incubo (Essere che mette in provetta un altro individuo)? Probabilmente no, e allora si può ipotizzare che i tessuti, nel loro materico rimandare ad una quotidianità rassicurante, forse la quotidianità serena dei giorni di un’infanzia tranquilla e mai dimenticata, rappresentino qui una sorta di barriera protettiva, un patchwork che si distende a celare le emersioni più minacciose dell’inconscio. L’artista considera ciò come una resa e come un tradimento dei suoi più consentanei modi espressivi, ma forse a torto, ché si tratta invece probabilmente soltanto di una necessaria pausa di riposo e di raccoglimento. Forse questi sono anche i prodromi di una nuova e più matura sintesi,ma ciò potrà dirlo soltanto il futuro.
Intanto Annamaria non cessa di guardare al presente e al passato, continuamente confrontandosi con la lezione dei grandi maestri dell’ieri e dell’oggi (persino Puvis de Chavannes, considerato a torto poco più di un freddo accademico ancor tutto ottocentesco, ma in realtà maestro e mentore di non pochi grandissimi suoi successori). E come potrebbe essere diversamente? Il mito tutto romantico dell’opera d’arte che sboccia come un fiore nel deserto ha fatto il suo tempo, sostituito dalla consapevolezza che l’artista e la sua opera tanto più sono originali quanto più si rapportano fattivamente ad una tradizione, inserendosi in essa, modificandola e venendone modificati, e l’arte, ogni arte, vive e perdura proprio grazie al suo sostanziarsi di rimandi, allusioni e citazioni. Quando nel Regulus Turner rifà Lorrain, è forse egli un piatto imitatore o, peggio, un plagiario? Si direbbe proprio di no. E basti solo questo notissimo esempio per far capire come anche Annamaria intrattenga con quelli che considera i propri mentori (vengono qui per primi in mente i nomi di De Kooning e di Matta) un rapporto che è sì di profonda devozione, però mai di vassallaggio. L’artista ha elaborato nel tempo un suo personale e riconoscibile stile, e mai dipinge alla maniera di… Nemmeno dipinge alla maniera di sé stessa (guai all’artista che ripete sempre la stessa opera), ché ella costruisce sì quella che possiamo definire come una infinita serie di variazioni su un unico tema, infinita quanto è infinito il combinarsi delle forme, ma aiutata in ciò anche dall’onirico automatismo del proprio gesto pittorico e dalla musica che quasi sempre nel dipingere ella ascolta e che tramuta quel gesto in un passo di danza, conferisce poi a ciascuna di queste variazioni piena autonomia di fraseggio e di ritmo. E in fondo cos’altro è la pittura se non una forma di musica? E’ una musica visiva, una musica che si ascolta con gli occhi. E servirà ricordare le parole di Matisse? “Un quadro è la coordinazione di ritmi controllati, ed è così che si può trasformare una superficie percepita come rossa – verde – blu - nera in un’altra all’apparenza bianca – blu – rossa - verde; è lo stesso quadro, la stessa sensazione presentata in modo diverso, cambiando i ritmi. La differenza fra le due tele è quella di due aspetti di una scacchiera durante una partita a scacchi”. Anche Annamaria Targher ha la sua personale scacchiera, e su di essa sta ora giocando con estrema maestria la propria partita.

Giovanni Battista Todeschi

 

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