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Dopo Bodegòn

di Karin Cavalieri

Nell'artistico paese di Guardia di Folgaria si celebra l'opera dell'artista trentina Annamaria Targher. Bodegòn. Due corpi in putrefazione e un ciclo di tele che contrassegnano la sua ultima produzione, ispirata alle ninfee, sono le sofisticate realizzazioni ospitate nel Centro Civico. L'esposizione esplicita un tentativo di riannodare l'opera storica e particolarmente cara all'autrice, ovvero Bodegòn , alla recente sperimentazione, avviata nel 2010.
Nell'iter creativo di A.T., Bodegòn coincide con il simbolico inizio di un meditato processo di costruzione della forma che sotto i colpi di un'energica pennellata prima giace sul limen della leggibilità e poi si disvela da Ninfee IV . Nelle opere la realtà subisce un'eterogenea trascrizione pittorica a seconda dell'identità che l'autrice decide di affermare: più quest'ultima è potente e più la forma è salda.

Bodegòn è una tela del 1998, selezionata nel 2001 dalla giuria del “Premio Lissone” e pubblicata sul relativo catalogo (Premio d'Arte città di Lissone). Nell'opera la stesura ad olio non sovrasta completamente il supporto, a tal punto che emerge l'impianto disegnativo (riconoscibile in molte opere della fase iniziale della produzione dell'artista): una sorta di tracciato, definito con la grafite, che recinge la scena. Nella serie destinata alle ninfee A.T. negherà l'abbozzo e il colore grezzo della tela, bramando un effetto di maggior finitezza esecutiva, più rassicurante per lei.
Anche l'andamento della pennellata concorre a distinguere i soggetti principali dallo sfondo: vorticosa e dinamica quando suggerisce due corpi in disfacimento presi d'assalto dai serpenti; verticale e statica quando scandisce lo spazio scenografico, simile ad una tappezzeria.
I due corpi allacciati tra loro in un groviglio di pennellate s'identificano grazie a masse informi. Sovente A.T. ricerca l'informe che “appartiene a ciò che ancora non è o a ciò che inizia a non appartenere più a questo mondo”, come la stessa rammenta.

Giorgio Pigafetta, docente di Storia dell'architettura moderna presso la Facoltà di Architettura all'Università di Genova, inserisce Bodegòn nel suo recentissimo volume La più vuota delle immagini , un'illuminante indagine sulle figure artistiche che rivelano “la più vuota delle immagini”, ossia la morte. Nel testo - excursus eterogeneo che spazia dalla pittura alla narrativa, dalla fotografia al cinema, dal teatro alla poesia fino a vagliare l'architettura - l'autore legge l'opera come un'affascinante imago putrefactionis dovuta alla perdita della forma che

«costituisce il fondo più potente e radicato della nostra caducità e, insieme, della provvisorietà del nostro io. Ne costituisce la consapevolezza ben più di quanto qualunque linguaggio possa esprimere. E, nel contempo, è il canto della vita che sempre si rinnova».(1)

Dunque nell'opera è dipinto il continuum tra la vita e la morte attraverso la resa dinamica della visione di due corpi. Essi sono costipati in uno spazio insidiato da sinuose creature striscianti che concorrono alla loro trasfigurazione.
Chi sono i soggetti dell'opera?
Le creazioni di A.T. sono proiezioni del proprio universo latente. In Bodegòn l'artista scava in una storia d'amore finita e vi trova non soltanto vita e morte, ma anche amore e odio. Dai suoi appunti si estrapolano interessanti spunti interpretativi:

«I corpi non deposti ma appoggiati, se pur labilmente, ad un piano lottano non solo contro il proprio possibile disfacimento, ma anche per non venire nuovamente a contatto: c'è una sorta di altalena tra attrazione e repulsione».

Viene in mente l'ambivalenza del sentimento teorizzato da Sigmund Freud in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915). Secondo il padre della psicanalisi l'uomo è costituito da moti pulsionali orientati alla soddisfazione di bisogni originari che, prima di divenire attivi, vengono inibiti e diretti verso altri scopi e altri ambiti, si confondono l'uno nell'altro, scambiano i loro oggetti e in parte si rivolgono verso il soggetto stesso. Formazioni reattive nei confronti di determinate pulsioni simulano il mutamento del loro contenuto, in tal modo l'egoismo potrebbe essere convertito in altruismo, la crudeltà in compassione. A favorire tali formazioni reattive sta il fatto che alcuni di questi moti pulsionali compaiono fin dall'inizio in coppie di opposti; tale situazione prende il nome di "ambivalenza del sentimento".

Nell'opera esaminata l'artista condensa pulsioni contrastanti. Dipanando i nodi psichici trascritti dall'abile pennello, si discerne anche un'altra coppia di opposti che paiono affrontarsi sul “fatale ring” dell'intima scena pittorica: l'io e il suo doppio.
La letteratura artistica ci fornisce molti exempla di sdoppiamento, soprattutto dalla nascita delle teorie psicanalitiche di Freud. Secondo la storica dell'arte Alessandra Comini alcuni artisti (perlopiù simbolisti e secessionisti) hanno sostituito la “psiche” alla “facciata”, mettendo appunto un nuovo approccio psicologico suggestionato dalle nascenti teorie analitiche.
Una produzione emblematica è quella di Egon Schiele che lavora sul tema del doppio ritratto, spesso svolto in chiave esplicitamente allegorica: il suo alter ego incarna proprio un malinconico memento mori.
Pure Bodegòn riflette la complessità mentale di chi ha vissuto un rapporto interpersonale in modo ambivalente, di chi si è lasciato sedurre dalla vita e dalla morte a tal punto da aver messo in scena la drammatizzazione della vita e del post mortem, dell'io e del proprio alter ego.
Anche nei corpi martoriati, nelle mani simili ad artigli, nei volti rinsecchiti di Egon Schiele è presente una tale paradossale compresenza di intenti, qui però non si ravvisa il disfacimento umano ma la tappa successiva: la riduzione del corpo a struttura ossea.
Dunque se nella rappresentazione di A.T. assistiamo ad un work in progress durante il quale i corpi morti si decompongono (secondo G. Pigafetta nella putrefazione vi è esaltata l'estrema vitalità), per contro in quelle di E.S. notiamo il termine di tale processo fattivo ovvero scheletri che indossano la maschera della vita (lo stesso autore annota “tutto nella vita è morte”).

A che genere pittorico si relaziona Bodegòn. Due corpi in putrefazione?
La prima parte del titolo indica l'appartenenza dell'opera alla natura morta, genere che emerge alla fine del XVI secolo.
Canestra di frutti del 1594-97 di Caravaggio è considerata la prima natura morta dell'arte italiana (troviamo tuttavia esperienze figurative che precedono la nascita ufficiale del genere), nata dall'intento di eleggere a soggetto dell'opera oggetti inanimati e ricercare non più presenze ideali, bensì reali e naturali.
Dunque in Bodegòn si assiste ad un tentativo di scardinare il genere storico?
Caravaggio sosteneva che non vi è nessuna differenza nel dipingere un quadro di figure piuttosto che un cesto di frutta, abolendo così la gerarchia tra i generi. A.T. propone una rivisitazione del significato di natura morta tanto da aggiungere idealmente al pensiero dell'artista rinascimentale una nuova intuizione: non solo i due generi sono comparabili, ma i soggetti delle nature morte possono avere una duplice natura, inanimata e animata.
Mentre Caravaggio dipingeva una nota dissonante all'ideale di bellezza dell'epoca, proponendo mele marce, acini e pera smangiate dai parassiti e fichi eccessivamente maturi, A.T. sceglie esseri umani, come oggetti ancora una volta “animati” dalla putrefazione, infrangendo ulteriormente gli stilemi di genere.

Tornando alla tesi che sorregge il progetto curatoriale della personale a Guardia, Bodegòn appare essere il modello delle Ninfee . L'intuizione dell'artista Tobia Ravà, secondo il quale la forma penta - lobata della ninfea è già in essere in uno dei corpi dipinti in Bodegòn , avvalora ulteriormente tale idea. Il corpo a sinistra della composizione infatti è costruito grazie alla giustapposizione di lobi (molto visibili i tre che compongono la testa e le spalle) che si espandono: una forma germinale dei futuri fiori.

Qui per la prima volta sono esposte le Nuove Ninfee , frutto di un'ulteriore sperimentazione sulla spazialità dell'opera. Esse sono dipinte su tele già intelaiate affinché l'artista possa concentrarsi sulla cucitura di stoffe, provenienti dai mercati di Vicenza, con la necessaria perizia tecnica. La componente spaziale dunque si arricchisce intervenendo sopra, dentro e sotto la tela.

 

(1) Giorgio Pigafetta, La più vuota delle immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pag. 64.

 

Karin Cavalieri

 

 

 
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